Proseguono i lavori per la realizzazione del parco eolico del Passo Cento Croci e contemporaneamente le mie ricerche sulla storia del luogo.
Dalla prima pagina del mio diario, archeologicamente non abbiamo rinvenuto ancora alcuna testimonianza, se non un bossolo da mitragliatrice risalente alla seconda guerra mondiale. L’oggetto in questione è lungo circa cinque centimetri e mezzo e il suo diametro misura un centimetro. Sul fondo esterno del colletto, in rilievo, si legge la sigla S M I acronimo di Società Metallurgica Italiana, seguita dai numeri 941, indicativi dell’anno di produzione del colpo. È un proiettile utilizzato frequentemente durante il secondo conflitto mondiale e prodotto in Italia, appunto, nel 1941.
Non era posizionato molto in profondità, bensì sotto appena trenta centimetri di suolo vegetale asportato con l’escavatore durante le operazioni di scotico.
Da fonti scritte, ma anche attraverso i racconti della gente del luogo, sappiamo che il Passo Cento Croci, tra le regioni Liguria, Emilia e Toscana, costituì, un fronte acceso di lotta partigiana durante la seconda guerra mondiale. Ma ha una storia molto più antica.
Probabilmente, in età romana, il passo Cento Croci collegava Segesta Tigulliorum, attualmente Sestri Levante, a Veleia, sito commerciale alle spalle di Piacenza e assolveva alla funzione di arteria per il trasporto in Pianura Padana del sale proveniente dalle saline di Sestri.
Lo studioso Gaetano Poggi (1901), associa il Passo Cento Croci al Mons Auginus, che nel 187 a.C. fu teatro della disfatta delle tribù liguri dei Frinati da parte delle truppe romane condotte da Flaminio console.
Successivamente, il valico fu oggetto di contesa tra Bizantini e Longobardi, messo a ferro e fuoco dai saraceni e per tutto il Medioevo la via di comunicazione transappenninica costituì un’importante mulattiera non transitabile con veicoli a ruota a causa della natura impervia del territorio.
Esiste anche una leggenda del Cinquecento sul motivo per cui il Passo abbia assunto la denominazione Cento Croci.
Secondo il racconto popolare, la strada che da Borgotaro conduceva a Varese Ligure era trafficata da spietati assassini che derubavano i viandanti lungo il tragitto. Per attutire la mattanza, la comunità della Val di Taro fece costruire all’imbocco del valico una chiesa e un punto di ristoro dove potessero pernottare viaggiatori e commercianti. La direzione del ricovero fu affidata, a quanto pare, ad un meschino personaggio chiamato il Monaco che, sotto consiglio diretto del diavolo, derubava e assassinava gli accolti. I corpi martoriati venivano nascosti e gettati in un pozzo da cui il cattivo odore si espanse ad attirare i cani di alcuni pastori. Questi, scoperta la terribile fossa comune commisero, ingenuamente, il grave errore di raccontare tutto al Monaco che, celermente, si diede alla fuga con tutti i denari e le ricchezze accumulate. Nei giorni a seguire, furono raccolti e recuperati i morti dal fondo del pozzo e per ogni corpo fu piantata una croce per un numero di cento.
È fondamentale per un archeologo tenere conto non soltanto delle ricostruzioni e delle analisi provenienti dai luoghi e dai ruoli istituzionali, ma anche ascoltare le persone e, se si può, vivere le tradizioni del luogo in cui si è immersi. Dietro i racconti vestiti di mito, dietro i toponimi, esistono spesso delle tracce che l’oralità non ha mai mancato di trasmettere. Di generazione in generazione.
Fonte: Marilena Scuotto per ExPartibus.it
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